Quattro emissioni in cinque anni: un vero record, quello piemontese, specie considerando che il francobollo era agli esordi e serviva solo per affrancare. Ed erano cambiamenti motivati, conseguenti a due decisioni prese fin dall’inizio, quando nel 1850 il Regno di Sardegna aveva approvato la sua riforma postale sul modello di quella britannica ormai adottata dai maggiori Paesi europei, ma con qualche novità riguardante proprio il francobollo. In effetti, della riforma inglese era stata ripresa soprattutto la parte tariffaria: uniformità su tutto il territorio (finalmente esteso anche all’isola di Sardegna, fino ad allora rimasta all’alba della posta), costi contenuti, riduzione dei privilegi.
Il francobollo fu invece adottato solo come accessorio, una comodità in più per il pubblico. Per affrancare le corrispondenze presso gli uffici postali nulla mutava rispetto a prima: l’impiegato imprimeva sulla soprascritta il bollo P.P. (porto pagato) e segnava al retro la cifra riscossa. I francobolli dovevano infatti servire solo per distinguere le lettere assicurate e per affrancare le corrispondenze che si voleva gettare nelle buche, dove sino a quel momento erano finite solo le lettere da inoltrare in porto assegnato.
Questa impostazione del tutto originale derivava probabilmente da una necessità di risparmio, visto che la riforma faceva prevedere una perdita di oltre 500 mila lire annue, solo in parte bilanciata dall’idea che “la posta non debbesi considerare mai come un ramo finanziario bensì come un servizio di pubblica utilità”. Dopotutto il francobollo aveva un costo, per quanto minimo: perché usarlo quando se ne poteva fare a meno? D’altro canto non si era neppure deciso di promuovere l’affrancatura anticipata delle corrispondenze essendo il numero delle lettere rifiutate solo il 3%: la tariffa restava la stessa sia che pagasse il mittente sia il destinatario.
L’altra decisione riguardante i francobolli fu che dovevano essere “incisi”, per evitare falsificazioni. Ma per incisione si intendeva quella in negativo tipica della tipografia, con le parti da stampare rilevate, allora praticata da pochi, non quella calcografica che chiunque poteva farsi in casa, come dimostrarono poco dopo veronesi e napoletani. E furono due decisioni che portarono alla nascita di quattro serie tra le più belle, originali e intriganti non solo in Italia ma nel mondo.
Dopo il Lombardo-Veneto, la Sardegna fu il secondo antico stato italiano che emise francobolli. Lo fece il 1° gennaio 1851 con tre valori, da 5, 20 e 40 centesimi, corrispondenti alle tariffe più in uso. Il disegno fu affidato a Giuseppe Ferraris, la stampa alla tipografia di Francesco Matraire, nel centro di Torino. Uno stabilimento per l’epoca importante e attrezzato, ma ancora lontano dalle capacità di produzione industriale che allora la stampa aveva già raggiunto. Matraire realizzò i tre valori in litografia su una carta spessa e senza filigrana, in due gruppi affiancati di 25 francobolli.
Il soggetto era il medesimo e si ispirava al Penny Black britannico, con Vittorio Emanuele II invece della regina Vittoria: le scritte necessarie, il valore in cifre e in lettere e, al centro, il profilo del re, ricavato dalle monete d’oro da 10 e 20 lire allora in corso. I colori scelti furono il nero, l’azzurro e il rosa. Ne furono stampati rispettivamente 240 mila, 900 mila e 90 mila. Sono noti solo tre fogli da 25 esemplari, uno per ciascun valore, già appartenenti alla collezione Rothschild e ora conservati al Museo postale italiano.
Poco più di due anni dopo, il 1° ottobre 1853, i tre valori furono sostituiti da altri – il colore del primo era cambiato da nero a verde – con disegno e diciture simili, ma con la stampa impressa a secco e in rilievo su carta colorata. La tiratura fu di 125 mila, 300 mila e 50 mila esemplari.
Passarono solo pochi mesi e nell’aprile 1854 questa serie, che non era facilmente leggibile, fu sostituita da un’altra – la terza emissione – di più facile lettura, con i medesimi valori, i colori verde, azzurro e rosso e le diciture e l’effigie impresse a secco in rilievo. Questa volta, però, la carta era bianca e il colore era ottenuto litograficamente, lasciando bianco l’ovale centrale con il busto del re. La tiratura fu di 200mila, 400mila e 50mila francobolli. Nel 1854 fu preparata un’altra versione, con rilievo meno accentuato e colori leggermente diversi, che però non venne posta in circolazione.
La quarta emissione uscì nel mezzo dell’anno seguente. La stampa dei bordi e delle diciture era in litografia, mentre l’effigie centrale, su fondo bianco, campeggiava in rilievo (sono noti anche valori naturali senza l’effigie). La serie era composta da un numero di tagli maggiore: 5 centesimi verde, 10 bistro, 20 indaco, 40 carminio, 80 giallo e 3 lire rame, uscito, quest’ultimo, all’inizio del 1861. L’emissione, l’ultima di Sardegna e la prima d’Italia (rimase in corso sino al 1863), è stata testimone delle vicende del Risorgimento e dell’unificazione: per la sua durata, l’interesse dei suoi aspetti filatelici e di quelli storici, è senz’altro una delle più affascinanti del periodo storico.
La caratteristica filatelica principale della quarta emissione è la grandissima varietà di colori. Per realizzare le nuove provviste richieste (soprattutto a partire dal 1861, quando il territorio d’uso aumentò molto e fu necessario realizzare tirature sempre più cospicue) la tipografia di Matraire faceva quanto poteva. Ma non utilizzava inchiostri prodotti industrialmente, quindi con un buon grado di standardizzazione; li preparava artigianalmente miscelando le produzioni del momento, con risultati così discontinui da ottenere francobolli sensibilmente diversi. Gli specialisti hanno catalogato le diverse tinte ottenute, suddividendole per anno, arrivando a classificarne fino a più di una trentina per francobollo. Per esempio, il valore da 20 centesimi varia dal cobalto al celeste, dall’azzurro all’indaco, ciascuno con diverse sfumature, riflessi e contaminazioni. Solo il 3 lire, che ebbe una tiratura molto inferiore, non presenta tutte queste varietà.
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